Per non dimenticare fascismo e omosessualità

La drammatica situazione degli omosessuali sotto il nazismo e il fascimo. Un argomento ancora troppo poco esplorato dagli storici italiani.

Per una volta non parleremo di silenzio che è base e strumento della persecuzione e della discriminazione degli omosessuali.

E’ appena uscito nelle librerie un testo, Le ragioni di un silenzio la persecuzione degli omosessuali durante nazismo e fascismo edito da Ombre Corte a cura del Circolo Pink centro di iniziativa e cultura GBLT di Verona,  che prende voce e analizza il tacere dei gay vittime di nazismo e fascismo.

Finalmente gli omosessuali trovano il coraggio di parlare, finalmente possiamo, nell’incertezza, offrire qualche cifra indicativa in merito alle vittime dei due differenti totalitarismi e finalmente la comunità gay visibile raccoglie testimonianze del suo penoso passato.

L’idea di raccontare il silenzio nasce da un silenzio ancor più terribile perché più attuale di quello fascista e nazista. Il Circolo Pink aveva chiesto nel 1997 di partecipare alle manifestazioni per il 25 aprile organizzate dal Comune di Verona per deporre una corona triangolare di fiori rosa sul monumento cittadino che ricorda le vittime dell’olocausto. L’atto fu vietato dal sindaco: non c’era bisogno di una rappresentanza specifica per ricordare quei morti. Negli anni nuove pseudo-giustificazioni negarono ai militanti di partecipare visibilmente alla manifestazione. Nel 2000 i Carabinieri non permisero al Pink di esporre lo striscione “Uccisi dalla Barbarie sepolti dal Silenzio. Nel 2001, con l’autorizzazione del comune e un labaro confezionato per l’occasione, lo stop venne da Roma: i gay non sono iscritti a nessun registro nazionale di associazioni di perseguitati riconosciute dal Ministero della Difesa. Il labaro quella volta sfilò fuori dalle transenne.

Questa vergogna, che perdura, ha portato i militanti ad organizzare un convegno, con l’aiuto di Giulio Russo, nel 1999 sulle ragioni di questo silenzio. A distanza di due anni sono pubblicato gli atti del convegno. Il silenzio è in parte rotto.

Diamo insieme uno sguardo al testo incominciando dalla trattazione del rapporto tra nazismo e omosessualità.

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Dopo una breve contestualizzazione storica di Carlo Saletti, membro dell'”Istituto storico veronese per lo studio della resistenza e dell’età contemporanea”, è pubblicato il buon saggio di Rüdiger Lautmann, tra gli iniziatori delle ricerche su omosessualità e nazismo e autore di almeno tredici testi sul tema (nessuno tradotto in italiano), che offre una stima delle vittime gay durante il nazismo: “Ho cercato di fare un conteggio per difetto: il risultato è che ci sono stati circa 10000 uomini con il triangolo rosa nei campi di concentramento, ma potrebbero essere stati di più o di meno […] noi siamo stati una piccola minoranza di perseguitati anche perché siamo ancora una piccola minoranza nella società. Spesso qualcuno riferisce di centinaia di migliaia di omosessuali morti nei lager, ma ciò non corrisponde al vero”. Oltre a questo lo storico punta il dito sul fatto che agli storici gay venga troppo sovente richiesto, con una buona dose di morbosità, di raccontare l’attività sessuale nei campi di concentramento. Lautmann è perentorio: “Nella realtà quotidiana dei lager i rapporti sessuali erano, per la maggior parte degli internati, fuori discussione. La lotta per la sopravvivenza dominava l’intera scena”.

Se le cifre paiono così ridimensionate, senza perdere di gravità, nelle ricerche rimangono numerosi zone d’ombra come dice il saggio di Giovanni Battista Novello Pagliani, insegnante di Antropologia culturale presso L’Università di psicologia di Padova: “ogni tentativo di numerare gli omosessuali morti nei lager è destinato a fallire” per la naturale ritrosia a testimoniare “vissuti personali particolarmente tragici e dolorosi”. E se questo è generalizzabile a tutti gli internati diventa ancor più difficile per gli omosessuali stigmatizzati anche dopo quel sanguinoso periodo storico: “il disprezzo e la persecuzione degli omosessuali – continua il docente universitario – non fa che garantire, anche nel dopoguerra, la solidità delle categorie su cui si fonda il vero uomo” e si basa “sulla rinuncia al diritto alla visibilità che era l’arma a doppio taglio alla quale gli omosessuali italiani [e aggiungiamo non italiani] erano costretti a ricorrere, e di cui allo stesso tempo erano vittime, per non essere emarginati dall’ambiente sociale”.

A seguito l’ottimo saggio di Klaus Müller Uccisi dalla barbarie, sepolti dal silenzio che indica sistematicamente le testimonianze audio video degli internati gay nei campi di concentramento. Se è fonte di stupore ed indignazione che  Survivors of the Shoah Visual History Foundation su 15000 interviste ad ebrei ne conserva solo due ad omosessuali anche nel campo di queste testimonianze pare che il silenzio venga meno e lo ha dimostrato il film Paragraph 175. Anche la pubblicistica sul tema, grazie agli studi compiuti, sembra aver ricevuto un impulso con la l’uscita dei testi, che raccolgono la testimonianze di due sopravvissuti, Die Männer mit den rosa Winkel (del 1972 ma tradotto in inglese e recentemente ripubblicato) e Moi, Pierre Seel, déporté homosexuel, entrambi non tradotti in italiano??, ma presentati, con ampi stralci, ne Le ragioni di un silenzio con altre numerose testimonianze.

Ma veniamo al rapporto tra fascismo ed omosessualità. Il testo accosta nazismo e fascismo avvicinando discriminazioni decisamente differenti. Entrambi i regimi totalitari condannarono l’omosessualità ma lo fecero con strumenti decisamente differenti e l’accostamento rischia di non far queste emergere le differenze. I due totalitarismo avrebbero meritato trattazioni separate. Franco Goretti, autore per Le ragioni di un silenzio dell’ottimo saggio Il periodo fascista e gli omosessuali: il confino di polizia dichiara a Babilonia: “La differenza sostanziale fra Germania e Italia è la presenza nella prima di un articolo penale, che consentiva arresto, processo e poi la creazione di campi di internamento. In Italia ci si muove nella persecuzione degli omosessuali con misure amministrative come confino, ammonizione e diffida. Un’altra differenza è il numero degli arresti e il periodo di persecuzione: in Germania abbiamo, stando a Lautmann 100.000 arresti, a cui seguono 50.000 condanne e circa 10.000 internamenti, concentrati nei primi anni di potere nazista (dalla metà alla fine degli anni trenta). In Italia sappiamo di circa 300 casi di confino di polizia le cui sentenze ritengo siano  maggiormente concentrate nel 1939-1941. Questo è quello che sappiamo per certo ma potrebbero essere di più. Inoltre  non conosciamo il numero degli ammoniti e dei diffidati. Altra differenza sostanziale: nei campi di internamento, per le pessime condizioni di vita, si moriva; nelle colonie di confino no”.

Oltre ad alcune testimonianze di discriminazione in Le ragioni di un silenzio è presente sempre sul fascismo un interessante scritto di Dario Petrosino sulla rappresentazione  degli omosessuali nella rivista “l’Italiano” di Leo Longanesi nel quale è sfatato il mito che l’omosessuale macchietta sia figlio del film Il vizietto. Già nel periodo fascista, e probabilmente anche prima, la stampa di destra, e sinistra, offriva l’immagine stereotipata del “pederasta” tipo: “volto efebico, zazzeruto e pieno di lentiggini” con indosso “un gilet a rombi, un paio di pantaloni a quadretti e un papillon a pallini” e immancabili  “i glutei protesi all’indietro”. Sulla storia della persecuzione degli omosessuali durante il fascismo c’è ancora molto lavoro da svolgere.

Le ragioni di un silenzio resta comunque, nel clima censorio che rende difficoltoso compiere e pubblicare queste ricerche, un testo interessante e coraggioso che ci offre una prospettiva su di una persecuzione che continua. Basti che solo nel 2001 si è proceduto a versare un indennizzo agli omosessuali perseguitati dai nazisti dopo anni di negazioni, continua il disinteresse di storici eterosessuali per l’argomento e si continua ad insinuare che gli omosessuali non siano fra le vittime di nazismo e fascismo. Purtroppo l’eredità di quelle vittime è affidata all’ignoranza dei gay di oggi come dice Müller nel suo saggio: il triangolo rosa è “da decenni il simbolo della comunità gay e lesbica ma sappiamo molto poco del destino individuale degli uomini con tale triangolo”.

 

Stefano Bolognini ⋅

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