Le manifestazioni dell’orgoglio gay e lesbico quest’anno hanno segnato una svolta nel modo di intendere il pride rispetto alle passate edizioni
Riposte nel buio di un cassetto le bandiere arcobaleno, dimenticate le magliette e i gadgets Pride in un angolo del guardaroba, insacchettate con pastiglie di naftalina voluminose parrucche e spenti i riflettori sulla giornata dell’orgoglio gay non rimane che lo spazio per una riflessione, con esponenti di spicco del mondo gay, in merito a quali sono le novità e a quale sarà il futuro del Gay Pride.
Uno sguardo solo superficiale alle manifestazioni fa pensare che, tra fine giugno e inizio luglio scorso, si sia assistito ad una sorta di ‘scontro’ tra un vecchio, e superato, modo di intendere il Gay Pride e un nuovo modo di manifestare, forse più superficiale, ma, numeri alla mano, decisamente più incisivo.
Il successo indiscutibile di pubblico delle marce di Milano e Roma, con un totale di novantamila presenze, è stata la novità che ha fatto gridare da più parti al miracolo: “finalmente anche gli italiani hanno avuto il ‘vero’ Pride”, e ancora, “ormai la visibilità è data per acquisita anche dai gay ‘non-di-movimento’” era il ritornello di quei giorni.
Gay Pride ‘old style’ sono stati, al contrario, quello di Verona che ha raggranellato circa tremila persone, quello di Genova che ha proposto alcune iniziative culturali ma che è rimasto misconosciuto e quello di Catania con un totale di partecipanti oscillanti tra i trecento, per i quotidiani e tremila per gli organizzatori.
Definire queste ultime manifestazioni un fallimento sarebbe eccessivo, ma, ad esempio, è evidente che la forte connotazione politica del Pride scaligero i cui organizzatori si arrogavano il ruolo di unici rappresentante della “vera” e “antagonista” (per loro) politica gay non ha pagato. Il vecchio Pride, quello militante, che in vent’anni di movimento non ha mai fatto registrare in piazza più di diecimila presenze sembra aver ceduto il passo.
Con due giornalisti gay valutiamo quali sono le differenze tra il nuovo Gay Pride e il vecchio Gay Pride. Sull’onda del successo della manifestazione milanese Daniele Scalise, collaboratore dell’ “Espresso”, dichiarava a Babilonia : “Il Gay Pride di Milano è stato, credo, il primo Pride dove sono stati aboliti spontaneamente gli slogan. E’ stata insomma una grande festa con la consapevolezza però che si era in piazza non per ballare e cantare ma per rivendicare i diritti conculcati delle persone omosessuali senza tuttavia il segno forte della ‘politique politicienne’”.
In sintonia con questa dichiarazione quella rilasciataci da Gianni Rossi Barilli, collaboratore de “il Manifesto”: “La differenza (dalle manifestazioni del passato, ndr) sta prima di tutto nei numeri. Il Pride di Milano è stato il primo, per così dire, “normale” che abbia registrato una partecipazione massiccia. Poi c’è anche una differenza qualitativa rispetto al passato, perché chi è stato a Milano ha potuto constatare che moltissimi dei partecipanti non provenivano dai ranghi del movimento. Segno che l’identità gay, lesbica e trans si è affermata finalmente anche al di fuori dell’impegno politico classico. Questo è senz’altro un fatto positivo, anche se rende ancora più attuale il problema dei contenuti condivisi di un progetto di cambiamento del modo di pensare e vivere la sessualità (e l’umanità)”.
Seguitando nella discussione con i due, sono emersi altri spunti di riflessione interessanti sul rapporto tra Mass-Media e nuove manifestazioni gay. Secondo Rossi Barilli :“I giornali e la tivù hanno parlato poco del Pride (di Milano ma vale anche per Roma, ndr.) semplicemente perchè ‘non faceva notizia’. Non c’era, come l’anno scorso, il clima da scontro finale con il Vaticano, non c’erano le polemiche incandescenti e i timori di incidenti provocati dai fascisti. E poi non c’era nemmeno più la novità dell’evento”. A fronte di questo però Scalise rileva che: “I giornali gay stanno assolvendo una funzione sempre più forte e in occasione del Pride hanno informato in modo efficace. Non è del resto un caso ce ne sono almeno quattro per non parlare di Internet. Quanto più la comunità gay prende forma, tanto più si sviluppano gli strumenti che le sono caratteristici”.
E’ palese che l’informazione data dalla stampa gay sull’evento abbia supplito alle carenze della stampa generica e c’è chi già propone, per l’anno prossimo, per l’evento un coordinamento tra testate gay.
Un altro elemento di novità, rispetto al passato, sta nel carattere prettamente festoso delle marce dell’orgoglio svoltesi senza slogan politici e con la folla orgogliosa che cantava pezzi ai primi posti della hit parade.
Chiediamo a Franco Grillini, parlamentare DS da sempre in prima linea nella lotta per i diritti degli omosessuali, quale ruolo ha la politica nel nuovo modo ‘ludico’ di intendere il Gay Pride: “Il vero significato politico di un Gay Pride sta nel numero di persone che coinvolge sia nel corteo sia ai lati della manifestazione, non a caso nel nord Europa si contano non solo i partecipanti ma anche coloro che assistono. Quando si parla di 800 mila persone al Pride di Berlino, per esempio, si da l’idea dell’omosessualità e della presenza gay come grande questione popolare, come fatto di massa che interessa o può interessare tutti. Certo, ci sono le associazioni, i gruppi gay di partito, gli organizzatori a cui va un grande merito che non va dimenticato o sottovalutato. Ma buon senso vuole che nessuno cerchi di mettere il cappello sul Pride se si vuole che diventi sempre più di livello europeo e sia quella ‘Giornata della dignità’ in cui tutti possano riconoscersi e alla quale tutti possano partecipare in amicizia e solidarietà. Io non farei, quindi, una contrapposizione tra politica e festosità perché secondo me le manifestazioni sono state un grande evento politico. Poi ognuno vi partecipa con i suoi contenuti e con le proprie idee. L’importante è che non si sminuisca la politica omosessuale e non la si consideri fatto marginale o secondaria rispetto a ‘temi più urgenti’. Il problema più rilevante è rappresentato dalla clandestinità di 5 milioni di gay e lesbiche in Italia e farli venire alla luce, renderli/renderci visibili, costituisce per me il fatto politico più rilevante proprio perché è il più difficile”.
In effetti i numeri in democrazia contano e i partecipanti alle manifestazioni di Roma e Milano hanno mostrato che esiste una comunità gay pronta rivendicare i propri diritti, ma che, se lo farà, seguirà strade di gran lunga differenti da quelle burocratiche e pseudo-gerarchico-moderate di movimento.
Il primo ad accennare a questo è stato Alessio De Giorgi, che in un editoriale al vetriolo pubblicato dal sito Gay.it di cui è presidente affermava: “Questo è stato il Pride (intende quello di Milano) che […] ha sancito la nascita della comunità gay e lesbica italiana: una comunità di cittadine e cittadini, e non più solo di militanti delle associazioni. Mi spiego. A portare tanta gente a Milano non è stata né Arcigay, né le altre associazioni: sono solo tre infatti i pullman organizzati e diretti nella città lombarda, non a caso tutti e tre provenienti da regioni “rosse” (Emilia e Toscana). Di fronte a 150 militanti, gli altri 49.850 manifestanti ci sono venuti per i fatti loro, in auto o in treno. La manifestazione ha funzionato ‘a prescindere’ dall’impegno delle associazioni. Ennesima dimostrazione che la centralità di Arcigay e dell’associazionismo sta venendo meno, di fronte all’avanzare della capacità dei media gay (riviste e internet) di parlare direttamente alla comunità”.
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Anche Marco Volante, di Gay Lib un’associazione gay liberale con sfumature a destra, ha notato che la giornata dell’orgoglio “Non è più una manifestazione solo per i militanti duri e puri, ma anche un momento di festa e grande solidarietà tra e per le persone omosessuali, oltre che di rivendicazione dei nostri diritti”.
Le parole di De Giorgi non danno merito alla militanza gay italiana che comunque, con il suo ampio panorama di gruppuscoli gay più o meno presenti (esistenti?) sul nostro territorio, era in piazza con i soliti diecimila militanti, quelli ormai storici, e quindi ha avuto un ruolo nel successo delle manifestazioni italiane. Per il nuovo Pride però è necessario ripensare alla collocazione della militanza e al senso del ‘far’ politica gay.
Per farvi un esempio, chi ha ascoltato i discorsi conclusivi della marcia di Milano, in piazza Castello, ha avuto la netta impressione che i discorsi dei rappresentanti delle associazioni gay e ‘non’ fossero lontani anni luce da volontà (e idee) politiche dei manifestanti.
Dal palco, dopo il penoso spettacolo dei rappresentanti di gruppo che litigavano accaparrarsi la possibilità di parlare alla folla, si è blaterato a lungo di globalizzazione, donne Afgane, antifascismo, aborto, disoccupazione, lotta a Berlusconi e altro, temi, per carità, degni di interesse, ma che parevano fuori luogo in una manifestazione gay. Non a caso gli interventi più applauditi, pochi, sono stati quelli che hanno parlato ai gay di gay (come quello della dei genitori degli omosessuali).
Il ‘siparietto’ conclusivo di Piazza Castello attesta che gli omosessuali italiani sono finalmente una minoranza che ‘interessa’ alla politica ma che i politici, o i membri di alcuni direttivi gay, spingono sulle ideologie del partito di appartenenza, tanto a destra quanto a sinistra, che non si sono ancora confrontate seriamente e serenamente con la questione gay.
Insieme alle novità rilevate fino a questo punto, sono emersi dei continuum a cui assistiamo Pride dopo Pride.
Non è una novità l’inefficienza dei gruppi organizzatori della manifestazione. “Arcobaleno”, l’associazione che ha promosso il Pride di Milano ce ne ha dato ampia dimostrazione con il ritardo abissale nel consegnare il programma della manifestazione alla stampa, l’incapacità di interloquire con tutta la stampa gay, l’esclusione, come vedremo meglio poi, della realtà commerciale dall’evento, le nemmeno troppe velate manie di protagonismo di certi suoi esponenti e l’incapacità assoluta nel pubblicizzare l’evento che è stato un successo solo grazie al passaparola tra gay sono tra le più mascroscopiche.
Anche il gruppo romano Mario Mieli ha fatto alcuni errori nelle public relation ed è colpevole, ad esempio, di aver sminuito, in una lettera aperta, il successo della manifestazione di Milano affermando che i partecipanti fossero soltanto trentamila anziché cinquantamila nel tentativo di attentare al potere che avrebbe acquisito “Arcobaleno” dopo la vittoria milanese. Guerre fra poveri, in nome di un potere che non esiste e che mostrano quanto i movimenti gay siano ancora frammentari e nevroticamente litigiosi.
Se di questi retroscena, preferiremmo non parlare, questi gay Pride (forse più quello di Milano che quello Roma) ha ri-mostrato la distanza abissale tra il movimento gay e le realtà commerciali.
Molti manifestanti si chiedevano come mai, a Milano mancassero i Tir “come quelli del Banana Cafè di Parigi”. Alessio de Giorgi dice, sempre nel suo editoriale, che quello nuovo “è stato un Pride anche molto poco commerciale, nonostante le accuse – più o meno velate, più o meno esplicitate – che sono piovute sui “poveri” organizzatori. Vuoi per la mancanza di persone che si dovevano occupare di questo aspetto, vuoi per una certa ideologia anti-commerciale ancora molto forte in parte del movimento glbt, vuoi per difficoltà oggettive a mettere insieme tutti, i milanesi non sono purtroppo riusciti a superare una delle ultime anomalie italiane rimaste in tema di Pride e cioè la scarsa collaborazione tra locali e associazioni militanti. E’ proprio questo l’elemento che sta alla base della straordinaria forza che il Pride ha all’estero: da una parte, la capacità economica dei locali, interessati dalla vetrina offerta dal Pride e dal pubblico che questo porta, e quindi disposti ad investire i soldi per la macchina organizzativa; dall’altro la capacità delle associazioni di mettere sul piatto della politica nazionale i grandi numeri che anche grazie alla sinergia col mondo commerciale si riescono a fare (500mila persone a Berlino, 200mila a Parigi, 500mila a New York e così via). Da noi questo non è ancora possibile, e questa è ancora una debolezza da superare”.
Ma allora quale futuro dobbiamo aspettarci per il Gay Pride italiano?
Difficile a dirsi. Dopo le manifestazioni più o meno tutti gli addetti ai lavori si sono scatenati in una ridda di dichiarazioni sull’opportunità o meno di questo, sulla volontà di quello, sul presenzialismo di quella e troppo altro. Non spetta a ma richiamare l’attenzione degli organizzatori futuri sugli omosessuali che sono scesi in piazza e sulle loro aspettative che mi sembrano lontane dalle rivoluzioni marxiste e dalle ‘illogiche’ di partito, ma che passano per una legittima volontà di felicità festosa.
Marco Volante prevede per il futuro “un incremento costante della partecipazione popolare al Pride
nazionale e, di pari passo, un incremento del numero dei Pride locali, fondamentali per dare una testimonianza dell’esistenza di una comunità glt in ogni angolo del Paese”.
Sergio Lo Giudice, presidente nazionale Arcigay pensa che: “ Già dal prossimo anno dovremo essere in grado di mettere in campo un modello più europeo di Pride: una grande festa della visibilità gay, lesbica e trans in cui il movimento si occupi di gestire i contraccolpi politici e le iniziative collaterali e un’apposita struttura gestionale organizzi l’evento. Meno riunioni per stabilire la piattaforma politica e più organizzazione della presenza. La nostra principale risorsa è il numero, e non la sfruttiamo ancora abbastanza. Per il 2002 faccio una proposta: niente politici dal palco, se non qualche espressione del movimento. Gli altri vengano a parlare dopo con noi: quel giorno stiano a guardare”.
Franco Grillini, per anni presidente nazionale Arcigay, aggiunge: “Sarà come tutti i Pride che avvengono nel mondo libero: festoso, allegro, sereno, non violento, incentrato sulla visibilità e la felicità di essere omosessuali”.
Per concludere lascio la parola a quattro diciottenni conosciuti alla manifestazione di Milano. Mauro, Alessandro, Marco e Lorenzo, tutti dichiarati e al loro primo Pride, mi chiedono dove sarà il Pride nel 2002. Alla mia risposta dubbiosa “Non so potrebbe essere ovunque ‘dietro le quinte’ non fanno altro che litigare…” ribattono unanimi: “Bhe noi ci andremo e ci divertiremo e tu?”. (Pubblicato in “Babilonia”, settembre 2001).