Tornano i terapeuti di gay

Gli integralisti cattolici, ispirandosi all’eroe biblico scampato alla distruzione di Sodoma, organizzano a Brescia un corso per “tornare” eterosessuali. Protesta la militanza glbt. Ma quali sono le ragioni profonde che inducono alcuni omosessuali a voler “guarire”?

Una immagine di propaganda dei terapeuti di gay americani.

“Cattolici, non guarirete mai”. Con questo slogan Arcigay è scesa in piazza a fine gennaio scorso a Brescia contro un seminario di “conversione” di omosessuali in eterosessuali, le ormai celebri terapie riparative.

Il seminario, precipitato nel calderone mass mediatico esattamente nello stesso istante in cui Povia annunciava che avrebbe cantato l’esperienza di un ex gay al festival di Sanremo, era organizzato (offerta libera ma caldeggiata di 150 euro) presso alcuni locali della diocesi della città dal Gruppo cattolico carismatico Lot, opportunamente intitolato al personaggio della Bibbia che sfuggì alla punizione divina inflitta agli abitanti di Sodoma grazie alla sua resistenza nei confronti del vizio.

Il corso, ben mimetizzato dietro al titolo Capire la sfera emotiva, ferite o abusi del passato e pubblicizzato con un volantino volutamente vago, era rivolto a coloro che vivono “incertezze sulla propria identità o sfera emotiva” e che vogliono sperimentare “la guarigione che viene da Dio”. Come?

Con una serie di incontri sui “i meccanismi della confusione sessuale” per “riallineare e potenziare la volontà”, “ripristinare la mascolinità” e per la “libertà dalla dipendenza sessuale” con “amicizie sane con persone dello stesso sesso”.

Tra regole vincolanti da sottoscriversi ad inizio corso (“è richiesto ad ognuno dei partecipanti di rinunciare ad ogni contatto con gli altri partecipanti al corso durante questo tempo e per alcuni mesi dopo la fine del corso”) e appuntamenti di preghiera, studio e riflessione ci sarebbe abbastanza materiale per derubricare il tutto alle psico-fantasie, all’abuso di credulità popolare o al solito delirio di alcuni fanatici religiosi: l’omosessualità non è una malattia e l’orientamento sessuale non può essere riparato.

Peccato che il promotore della terapia  Luca di Tolve, unico ex-gay italiano pubblico, si sia lanciato, cavalcando il caso Povia, in uno stillicidio massmediatico facendo grancassa delle ragioni che lo hanno portato alla felice conversione da gay a etero fino al matrimonio. Per Di tolve, che si dichiara sieropositivo, l’omosessualità “era causa di vuoto e infelicità”, una pulsione “incontrollata, che dovevo imparare a dominare”. La sua sofferenza personale, che merita rispetto, è diventata però una implacabile crociata mediatica contro tutti gli omosessuali, anche quelli felici. Il suo giudizio è implacabile: “il rapporto d’amore tra due uomini è effimero e compulsivo”, i gay sono affetti da “nomadismo sentimentale” e “non può esistere stabilità e fedeltà nel mondo gay”.

La partecipata manifestazione organizzata da Arcigay Orlando di Brescia ha costretto il seminario a  cambiare sede e ha reso pubblico il problema.

Da più parti le terapie riparative sono state definite inutili e dannose e solo “Avvenire” ne ha osato una timida difesa ma non con uno scienziato, sarebbe stato evidentemente impossibile, ma con tal don Carlo Bresciani, teologo e moralista, convinto che non si possa escludere che l’orientamento sessuale possa essere cambiato. L’ha solo escluso l’Organizzazione mondiale della sanità e scusate se è poco.

Ma nel magico mondo del fanatismo omofobico le verità della scienza hanno ben poco peso. La “terapia” dell’omosessualità viene perciò considerata assolutamente affidabile e promette anche risultati a breve termine. Almeno a coloro che avranno la costanza di seguirla fino a giugno, affrontando insieme ai mea culpa e agli scongiuri catartici anche “sane” passeggiate in montagna  e un corso di roccia.

In tutta la vicenda restano sullo sfondo le ragioni profonde per cui gli omosessuali si rivolgono ai terapeuti e a Dio per il miracolo. Ci aiuta un po’  a cercare di chiarirle la testimonianza di due militanti infiltrati da Arcigay Brescia, tra mille difficoltà, alla prima lezione del corso. Loro hanno incontrato di persona coloro che esprimono il desiderio di essere curati e ce li hanno descritti.

Uno degli “infiltrati” prova a tracciarne un profilo comune: “Aleggiava una cupa tristezza e i ragazzi, tra i ventitré e i venticinque anni, erano accomunati da un aspetto trasandatoe dall’aria dimessa di chi è abituato alla solitudine.

Il più giovane era terrorizzato dall’idea di avere fantasie omosessuali che non aveva mai tradotto in atti concreti. Un bolognese aveva un’aria tristissima e gli occhi segnati dalle occhiaie. Anche lui ha parlato di un forte disagio. Un altro era evidentemente sotto psicofarmaci, aveva lo sguardo fisso e perso nel vuoto, e ha detto che la sua terapeuta l’aveva mandato lì. Parlavano tutti con orgoglio del loro tentativo di guarigione e ad alcuni il mondo gay risultava falso e privo di vere amicizie”.

Fabio, l’altro infiltrato, è eterosessuale e racconta una forte esperienza emotiva: “All’accoglienza eravamo una trentina: Di Tolve più famiglia, compresa moglie, madre e padre, alcuni semi-guariti che avrebbero tenuto i gruppi di lavoro e tre chitarriste che ci allietavano con canti religiosi mai sentiti. In cura eravamo pochi, una decina i maschi e due le ragazze. Una, obesa, è svenuta nel corso di una scenografica preghiera nella quale ognuno interveniva come voleva al grido o  sussurro di “Signore liberami dalle pulsioni negative” o “Gesù guariscimi” e altro.

Avevo l’impressione che fossero persone profondamente sole, molto rigide e facilmente influenzabili, di quelli che hanno bisogno di ricette pronte da seguire. Insomma un po’ sfigatelli, vestiti da vecchi, sciupati e persino bruttarelli. Colpiva il loro conflitto totale tra credo e pulsioni. Erano impotenti di fronte all’omosessualità, che considerano un peccato.

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I più alfabetizzati avevano imparato a memoria la lezione: provo una pulsione o un desiderio gay, devo pregare di più dio per eliminarlo.

La soluzione poi sta, secondo di Tolve, in sane amicizie etero e nel non frequentare i gay. E una contraddizione i gay hanno amici etero ma solo uno dei partecipanti mi è parso dissenziente. Ha confessato di aver bevuto un caffè con un amico gay. Di Tolve è stato educato ma fermo: hai sottoscritto le regole del gruppo, se non ti vanno bene puoi seguire altre strade. Mi sembrava la stessa tecnica che si usa con i tossicodipendenti che vogliono uscirne.

L’appuntamento aveva qualcosa di spaventoso. Non vedevo l’ora di scappare, mi sentivo braccato avevo la sensazione di non essere libero fino in fondo, controllato. Nessuno dei partecipanti era sereno”.

Per lo psicoterapeuta Vittorio Lingiardi chi esprime il desiderio di essere convertito “vive da sempre, con la terribile convinzione di essere rotte, sbagliate, riuscite male.

L’intensità di questo disagio è variabile: da intermittenti cadute dell’autostima e senso di colpa, a un vero e proprio disprezzo di sé con depressione, prostrazione profonda e pensieri suicidari.

L’esperienza clinica mostra come a volte un persistente conflitto circa la propria identità sessuale appartenga a quadri più generale di personalità particolarmente fragili o disturbate, con rappresentazioni di sé confuse o dissociate.

Il “problema” non è l’orientamento omosessuale, ma la sua mancata accettazione e, dunque il rifiuto di sé”.

Secondo lo psicoterapeuta la chiesa ha forti responsabilità nella sofferenza di questi individui: “Se prendiamo in considerazione le posizioni della Chiesa, che considera l’inclinazione omosessuale “oggettivamente disordinata” e le unioni affettive tra persone omosessuali indegne di riconoscimento sociale, è facile capire come una persona omosessuale e cattolica possa entrare in conflitto poiché il modo in cui sente è stigmatizzato proprio da quella Chiesa in cui crede”.

Ma il rifiuto totale di sé non riguarda solo i cattolici: i dieci gay intercettati dal gruppo Lot sono solo la punta di un iceberg. Decine di anonimi gay affidano ad internet il loro desiderio di tornare etero.

Un sedicenne, per esempio, racconta ad un sito di psicologia per adolescenti un tripudio di fantasie orgiastico masturbatorie tutte maschili e sta “davvero male”: “penso che se fossi gay sarei capace di suicidarmi perché per me non esiste accettare le proprie deviazioni sessuali. Non si tratta degli altri e di quello che potrebbero pensare di me, ma di quello che penso io di me stesso”.

Valerio che ha 19 anni e vive in un paesino in prossimità di Roma chiede  ad uno psicologo on-line consigli “per tornare etero”. Le sue paure? Prova “vergogna” nell’essere gay, teme che la sua vita “cambi terribilmente” e desidera per il futuro “una donna accanto e anche dei figli”.

Ancora, un 31 enne sposato dichiara che si ucciderebbe piuttosto di essere gay: “Ho seguito per quattro anni una psicoterapia, e il mio psicologo mi ha sempre detto che non ero gay ma che tutto derivava dalla mia paura e odio verso le donne, e soprattutto per il rapporto “passivo” nei confronti della mia ex una donna che mi prendeva ma che raramente voleva avere rapporti sessuali. Ma frequento ancora le chat gay e ho forti erezioni”. Il problema resta ed è urgente.

Per dieci omosessuali che si rivolgono al gruppo Lot molti altri (ed è impossibile quantificarli), come il sedicenne che abbiamo incontrato sul web, sono in cura da uno psicologo mentre il 31 enne è invitato da una psicoterapeuta ad usare  “il cherry plum dei fiori di bach, per stabilizzare il lavoro terapeutico svolto”. Follia, ma che fare?

Ottimo denunciare i terapeuti, giusto spiegare che l’omosessualità non è una malattia, bene contestare la follia del fondamentalismo religioso ma è anche necessario guardare oltre.

Ogni omosessuale che chiede di tornare etero ha intorno amici, religiosi, familiari e una rete sociale incivile e incolta convinta che sia possibile. Forse bisognerebbe incominciare da lì. (pubblicato in “Pride”, marzo 2009, n. 117, p. 9-10 con il titolo “Il complesso di Lot”)

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