L’onorevole cross-dresser Vladimir Luxuria non l’ha fatta franca.
Due porte identiche, contraddistinte dal simbolo uomo e donna, smistano i corpi nei gabinetti pubblici. Nessuna donna che indossa pantaloni si sognerebbe di entrare nella porta contrassegnata dal simbolo di una figura in abiti maschili e nessun sacerdote, in abito talare, entrerebbe in quello con la figura in abiti femminili.
Nessuno, ad eccezione di travestiti e transessuali che vogliono passare inosservati, interpretano quei simboli alla lettera: se indosso i pantaloni di qua, se indosso la gonna di là.
Solo i bambini, soprattutto maschietti nel bagno femminile con le madri, possono “violare” il tabù del gabinetto facendola franca.
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Così Luxuria che ha imboccato il “di là” che sentiva suo ha lanciato la sua sfida (e suscitato l’ira funesta di Elisabetta Gardini) al binarismo culturale riportando i simboli sulle due porte, che non contengono immagini di organi genitali, al loro valore di convenzioni che non offrono nessuna certezza biologica. Il gabinetto, volenti o nolenti, è un luogo di “identificazione di genere” che rispetta l’educazione ricevuta da bambini e bambine.
Usurpare il tabù del gabinetto significa muoversi al di fuori della presunta binarità tra sessi, di quel vecchio e trito binomio “maschi” e “femmine”. Per il transessuale il test del gabinetto diventa una segregazione di fatto.
Banditi dal bagno delle donne, perché già conosciuti come uomini e sgraditi nel bagno degli uomini perché “non più uomini” innescano tutta la lancinante angoscia (vedi Gardini) del binarisimo tipico del ventesimo secolo a cui un’operazione chirurgia non offre che una pallida risposta.
Questa segregazione, senza andare troppo indietro nel tempo, ricorda quella delle toilette divise tra bianchi e neri negli Stati uniti di qualche decennio fa. A quella segregazione non ha dato risposta un’operazione chirurgica, bensì una culturale. Restiamo in agro-dolce attesa.
(Pubblicato in “Gaynews.it” con il tiolo La segregazione urinaria nell’ottobre 2006)