Il Corso di Laurea in Psicologia dell’Università “Federico II” di Napoli ha avviato uno studio sulla qualità delle relazioni di coppia tra persone transessuali/transgender. Arcigay ha intervistiato il professor Paolo Valerio, ordinario di Psicologia Clinica, e responsabile della ricerca.
Negli ultimi tempi l’università italiana si sta aprendo all’approfondimento e allo studio di tematiche relative alla comunità gay, lesbica e transessuale. Come mai?
Non è semplice fare una riflessione sul “perché” anche in Italia si stiano sviluppando in campo universitario una serie di ricerche su tali tematiche, ma ho avuto anche io modo di rilevare che questo sta accadendo non solo in ambito psicologico, ma anche sociologico ed antropologico. Penso che tali studi possano anche essere visti come una risposta alle dinamiche omo e transfobiche sempre più dilaganti nel nostro paese.
Fenomeni di discriminazione, di violenza nei confronti del mondo GLBT sono, infatti, sempre più frequenti e preoccupanti, incentivati, inoltre, da una allarmante mancanza di leggi. Possiamo, però, essere tutti soddisfatti che finalmente molti ricercatori stanno tentando di aprire prospettive, di comprendere problematiche e di superare pregiudizi da cui anche la psicoanalisi o la psichiatria – solo per fare un esempio – non sono stati esenti. Basti pensare che l’omosessualità è stata eliminata dal DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) solo nel 1974 e si è dovuto attendere il 1991 affinché l’American Psychoanalytic Association approvasse un documento pubblico riguardante l’ammissione dei candidati al training psicoanalitico, non più basata sull’orientamento sessuale (per una persona omosessuale non era possibile intraprendere il percorso di formazione analitica, quindi diventare psicoanalista), ma su altri fattori, quali l’interesse, la preparazione, e così via. Nello specifico, per quanto riguarda i “transessualismi” – preferisco utilizzare il termine al plurale per la qualità multidimensionale e multiforme del “fenomeno” – nell’Unità di Psicologia Clinica e Psicoanalisi Applicata della Federico II di Napoli, sono ormai anni che accostiamo alla pratica clinica – svolta sulla base del modello psicoanalitico – attività di ricerca collegata anche alle attività del Dottorato di Ricerca in Studi di Genere presente nel nostro Ateneo. Per ritornare alla domanda, penso che la società occidentale non abbia ancora eliminato dei fortissimi pregiudizi ideologici circa il genere e l’orientamento sessuale: intendo riferirmi al genderismo, cioè alla convinzione che esistano solo due generi (maschio/femmina) e che questi non possano essere modificati (dunque il transessuale che modifica, grazie all’intervento, il proprio sesso, non può rientrare nella concezione appena descritta), oppure all’eterosessismo, cioè a quel sistema ideologico che nega e stigmatizza ogni forma di comportamento, identità, relazione o comunità che non siano eterosessuali. Ecco, forse la proliferazione – anche se ancora limitata – di studi in quest’ambito ha anche il ruolo di comprendere le motivazioni più nascoste e profonde di questi sistemi di pensiero e chiaramente di porre degli argini agli stessi.
Quali sono le differenze o i ritardi eventuali negli studi lgbt italiani rispetto all’estero?
Non so quanto sia corretto parlare di ritardi o differenze negli studi lgbt. Io ritengo che il ritardo maggiore riguardi particolarmente la sfera legislativa. Penso, ad esempio, al FRA (Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali) che il 30 novembre di quest’anno ha presentato al Parlamento Europeo la relazione su Omofobia, transfobia e discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere.
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Sono emerse alcune tendenze principali tra i Paesi dell’Unione Europea riguardanti qualche forma di progresso nelle aree legislative, mediche e comunitarie come, ad esempio, nuove leggi circa la riassegnazione chirurgica del sesso (RCS) e il cambiamento anagrafico del nome, o nuove proposte in merito alla protezione legale della discriminazione basata sull’orientamento sessuale, e così via. L’Italia non compare in nessuna delle aree di progresso emerse anche se qualcosa sta cambiando. Penso ad un recente provvedimento preso dalla Università di Napoli Federico II che, anche sulla scorta di iniziative promosse in altri Atenei, ha recentemente deliberato una norma che consente agli studenti universitari iscritti all’Ateneo che hanno in corso un iter legale finalizzato alla modifica anagrafica del genere, di avere un libretto universitario provvisorio dal quale emerga il nuovo nome che intendono scegliere, così da non essere costretti a dichiarare pubblicamente l’appartenenza al genere a cui non sentono di appartenere.
Come mai avete scelto di indagare le relazioni di coppia delle persone transessuali e transgender?
Le relazioni affettive di coppia – particolarmente in età adulta – rappresentano una modalità specifica di porsi in relazione con gli altri (in questo caso il partner), di condividere e negoziare angosce, preoccupazioni, insoddisfazioni, insomma di mettere in atto una regolazione affettiva essenziale per l’individuo. Le relazioni di coppia, ad esempio, sono state studiate, particolarmente, dagli sviluppi della teoria dell’attaccamento di John Bowlby, uno psicoanalista britannico che si è distaccato dal pensiero freudiano troppo ancorato ad un modello pulsionale della psiche, abbracciando appunto il concetto di attaccamento inteso come un bisogno primario e non secondario. Cioè, il bambino non si legherebbe alla madre perché ha la necessità di soddisfare alcuni bisogni elementari come, ad esempio, la fame, ma si “attaccherebbe” ad essa perché il legame (affettivo) è un bisogno primario. Gli sviluppi successivi del primo modello di Bowlby – i cui pioneri sono Hazan e Shaver (1987) – hanno concettualizzato anche l’amore romantico di coppia come un tipo specifico di attaccamento – quindi di legame affettivo primario – il cui nucleo è da ricercare nella relazione madre-bambino. Si è, quindi, spostato il focus di indagine dalla diade madre-bambino alla coppia adulto-adulto e alla qualità affettiva di essa, costruendo un modello psicologico interessante che ha avuto non poche ripercussioni positive anche in ambito psicoterapeutico. Dunque, le relazioni di coppia svolgono indubbiamente una funzione fondamentale nella vita di un soggetto adulto e la “buona riuscita” di esse potrebbe essere considerata un indice di maturità affettiva ed anche sessuale.
Con la vostra ricerca sulle relazioni di coppia delle persone trans aprirete un campo completamente inesplorato dagli studi. Quali aspettative avete?
Penso che quando, come lei stesso ammette, si tratta di un campo inesplorato, difficilmente si possa parlare di aspettative. Un’analisi attenta della letteratura sull’argomento ci ha consentito di sviluppare alcune conoscenze sulla sessualità vissuta nei rapporti di coppia in cui un partner è transessuale o transgender, ma nulla è stato scritto sulla qualità affettiva dei rapporti di coppia. Eppure, come ho avuto già modo di accennare, è un’area di fondamentale importanza per qualsiasi individuo. Sarebbe forse meglio parlare di ipotesi piuttosto che di aspettative. Io penso che, come in ogni rapporto di coppia, se sono presenti – in uno solo dei partner o anche in entrambi – delle problematiche psico-sociali, dei pregiudizi legati al genere sessuale, delle aderenze troppo strette alla norma culturale (quando essa è discriminatoria, come nel caso delle persone transessuali o transgender), possano crearsi delle problematiche che, se non analizzate e studiate, rischiano di cristallizzare la coppia (e la persona) in insuperabili difficoltà relazionali. Questo studio intende, quindi, prima di tutto comprendere alcune dinamiche affettive che le persone transessuali o transgender vivono nei loro rapporti di coppia.
Il lavoro culturale dell’università può essere utile a ridurre la violenza e la discriminazione agli omosessuali?
Io sostengo che ogni forma di lotta alla discriminazione, alla violenza rivolta a persone omosessuali, transessuali, bisessuali, lesbiche, queer, e così via, debba sempre passare prima di tutto per una sua comprensione profonda. Perché gli omosessuali sono oggetto di scherno, di violenza? Perché le persone transessuali sono oggetto dei più forti pregiudizi culturali, e divengono, dunque, oggetto di transfobia? Queste sono solo alcune delle infinite domande che noi ricercatori dobbiamo porci prima di attuare un qualsiasi tipo di intervento che sia clinico, legale o quant’altro. L’università è un luogo dove circolano i saperi, e questo richiama alla differenza fondamentale tra teoria e prassi. Ci può essere l’una senza l’altra? E’ possibile svolgere un buon intervento (prassi) senza avere una conoscenza profonda (teoria) del fenomeno sul quale si interviene? Senza l’una l’altra non avrebbe senso, senza teoria (cioè sapere forte alla base) la prassi rischierebbe di diventare un comportamento messo in atto senza la necessaria riflessione che deve esserci alla base. (pubblicato in Arcigay.it, 15 dicembre 2010).