Un dì all’azzurro spazio, ermetico cortometraggio presentato al 24° Festival Mix di Milano del 2010, è l’unico sforzo italiano di affrontare la tematica di confine della disabilità gay con un linguaggio cinematografico.
Narra il dramma di un ragazzo tetraplegico innamorato del proprio assistente che vive l’angoscia di vederlo sposato ad una giovane.
Il racconto, incastonato in una fotografia ottimamente curata da Dario Di Mella, mostra gli sposi ignari e ciechi dell’amore sensuale che prova il disabile.
L’atmosfera poetica, con un uliveto assolato a fare da sfondo che diventa palco teatrale grazie all’inserimento di oggetti non contestualizzati, diventa, grazie alla sapiente regia, una metafora complessa del sentimento silenzioso e dell’insanabile sciagura affettiva che pulsa nella doppia diversità. Ad evidenziare la sofferenza del disabile il cupo ed invadente frinire delle cicale e l’abisso di incomunicabilità dei protagonisti.
Nell’opera, l’uso continuo e claustrofobico della metafora, rende l’omoerotismo solo accennato a tratti come nel desiderio di carezze del disabile o nell’atto dell’assistente di vestire il corpo dell’uomo per la cerimonia.
Questo, se da una parte rende l’atmosfera carica di lirismo, dall’altra permea il cortometraggio di enigmaticità tanto da renderlo di non immediata fruizione.
L’esordio di Andrea Cramarossa con il cortometraggio è comunque interessante perché il lavoro, nel complesso, offre una prospettiva se non diretta, almeno specifica rispetto ad una forma di sofferenza ignota alla cultura e rifuggita dai media.